IL TRIBUNALE

    Ha   emesso  la  seguente  ordinanza  di  rimessione  alla  Corte
costituzionale ex art. 134 Cost. e 23, legge 11 marzo 1953, n. 87.
    Visti  gli atti e i documenti del procedimento penale n. 20785/01
R.G.N.R.  e  n. 20013/05  R.G.  promosso contro Melinato Elio, nato a
Salzano  (Venezia)  il  2 gennaio  1938  e  Sacco Piergiorgio, nato a
Serravalle  Scrivia  (Alessandria)  il  2 luglio 1942, osserva quanto
segue.
    1.  - Gli odierni imputati sono chiamati a rispondere nell'ambito
del  processo  succitato  dei  reati  di  cui al decreto di citazione
diretta  emesso  il  27 ottobre  2004 avente ad oggetto (tra l'altro)
ipotesi  di  violazione dell'art. 51, commi 1 e 5 e 51-bis del d.lgs.
n. 22 del 1997 - trattasi dei capi a), d) ed e) dell'imputazione.
    La  vicenda  prende le mosse dal sequestro preventivo eseguito in
data 22 marzo 2002 di un deposito di ceneri di pirite pari a circa un
milione di tonnellate, sito in localita' Gambarare del comune di Mira
ed  avente un'estensione di circa 80.000 mq, all'interno del quale la
societa'  Veneta  Mineraria  S.p.A.,  di  cui  era  all'epoca  legale
rappresentante   l'imputato   Piergiorgio  Sacco,  e  Melinato  Elio,
titolare  dell'omonima  ditta  individuale,  avrebbero effettuato, in
assenza  o  sulla  scorta  di  un'autorizzazione  comunque scaduta di
validita',   a   mente   di  quanto  previsto  dall'art. 57,  d.l.gs.
n. 22/1997, attivita' digestione di rifiuti pericolosi espletando, su
tale  discarica  non piu' attiva, realizzata negli anni '70, la messa
in  riserva di tali rifiuti in vista del loro avvio a recupero presso
cementifici.
    Sempre  in  assenza  della  prescritta  autorizzazione  avrebbero
altresi'  utilizzato  nell'ambito  della  discarica,  in attivita' di
recupero ambientale, rifiuti inerti provenienti da demolizioni edili.
    Detta  attivita'  di  gestione  e  messa in riserva sarebbe stata
espletata  in  violazione  del  citato  decreto legislativo senza che
fossero  adottate  le forme di tutela atte ad assicurare l'integrita'
dell'ambiente.  L'area  sarebbe infatti stata sottoposta ad attivita'
di  escavazione  con  conseguente  esposizione dei rifiuti pericolosi
agli  agenti  atmosferici  ed al dilavamento, senza che fossero stati
adottati presidi idonei ad intercettare le acque di percolazione, dal
che   ne  sarebbe  derivata  una  grave  compromissione  dei  terreni
confinanti  delle  falde  acquifere  sotterranee e dell'area lagunare
circostante.
    Nell'ambito   della   predetta  attivita'  gli  odierni  imputati
avrebbero altresi' ottenuto dalla Provincia di Venezia autorizzazione
a  miscelare  le  ceneri  di  pirite del deposito con altro materiale
sempre  a  base di ceneri di pirite, attivita' condotta in violazione
del  disposto  di  cui  agli  artt. 2,  comma 2 e 9, comma 2, d.l.gs.
n. 22/1997,  in  quanto  eseguita  con  modalita' tali da determinare
pericolo  per  la  salute dell'uomo e per l'integrita' dell'ambiente:
attraverso  detta  attivita'  di  miscelazione  veniva effettuata una
prolungata  esposizione  delle  ceneri  al  dilavamento  delle  acque
meteoriche  che  avrebbe  provocato  i  gravi  danni ambientali sopra
indicati.
    Gli  imputati  avrebbero infine omessa di procedere alla bonifica
dei terreni circostanti la discarica pur avendo cagionato, o comunque
incrementato,  con le condotte sopra descritte l'inquinamento di tali
aree.
    Il  processo, nel corso del quale si sono costituite parti civili
la  Provincia  di Venezia, il comune di Mira nonche' i proprietari di
uno  dei  fondi  confinanti  con  il  deposito, e' in fase decisoria,
essendo stato dichiarato chiuso il dibattimento.
    2. - Il quadro normativo di riferimento.
    Orbene,  com'e'  noto,  il quadro normativo di riferimento per le
fattispecie di reato in oggetto e' mutato sia a livello nazionale che
comunitario.
    Il  29 aprile  del  corrente anno e' infatti entrato in vigore il
decreto  legislativo  3 aprile 2006, n. 152 recante «Norme in materia
ambientale»  che  ha  inteso riordinare, tra l'altro, nella sua parte
quarta,  la  materia  della gestione dei rifiuti e della bonifica dei
siti  contaminati,  con  conseguente espressa abrogazione dell'intero
decreto  legislativo  5 febbraio  1997,  n. 22 (v. art. 264, lett. i)
d.lgs.  n. 152/2006). I fatti di reato contestati agli imputati vanno
dunque  sussunti sotto le disposizioni sanzionatorie del nuovo testo,
in particolare per il capo a) va richiamato l'art. 256, comma 1 e per
il  capo  d)  il  comma  5 dello stesso articolo atteso che il tenore
delle  norme  incriminatrici  coincide  completamente  con quello del
testo previgente (art. 51, d.lgs. n. 22/1997), fatto salvo un leggero
ritocco  alle  pene  pecuniarie.  Quanto  al  reato  sub e) va invece
rilevato   che  la  fattispecie  di  reato  originariamente  prevista
dall'art. 51-bis  vecchio  testo  subisce  un'immutazione  rilevante,
essendo  stato  introdotto  come ulteriore nuovo elemento costitutivo
del  reato il superamento delle concentrazioni soglia di rischio, non
previsto dalla precedente disciplina (art. 257 d.lgs. n. 152/2006).
    Nella  Gazzetta  Ufficiale  europea del 27 aprile 2006, n. 114 e'
stata frattanto pubblicata la direttiva 2006/12/CE, entrata in vigore
il  17 maggio 2006, che sostituisce ed abroga la precedente direttiva
75/442/CEE  e  le  sue  successive  modifiche.  Tale  nuova direttiva
costituisce  dunque  il  nuovo  punto di riferimento normativo per il
trattamento  dei  rifiuti nell'ambito dell'Unione Europea e riproduce
sostanzialmente invariati i precetti, le definizioni e le nozioni del
precedente assetto normativo.
    Sono dunque queste le disposizioni legislative che questo giudice
e' chiamato ad applicare nel presente procedimento.
    3. - Il sottoprodotto.
    La  nuova  direttiva  comunitaria  all'art. 1,  comma 1, lett. a)
definisce  rifiuto  «qualsiasi  sostanza od oggetto che rientri nelle
categorie  riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o
abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi».
    Analoga  definizione  e'  contenuta  nel  nuovo  testo  nazionale
all'art. 183,  comma 1,  lett.  a): e' rifiuto «qualsiasi sostanza od
oggetto  che  rientra  nelle categorie riportate nell'Allegato A alla
parte  quarta  del  presente decreto e di cui il detentore si disfi o
abbia  deciso  o abbia l'obbligo di disfarsi». Il decreto legislativo
contiene   altresi'   allo   stesso   articolo   le   definizioni  di
sottoprodotto  e  di materia prima secondaria, che invece non vengono
contemplate  nella  direttiva.  Per  quanto  e' qui di interesse alla
lett.  n)  del  citato  articolo  vengono  definiti  sottoprodotto «i
prodotti   dell'attivita'   dell'impresa  che,  pur  non  costituendo
l'oggetto dell'attivita' principale, scaturiscono in via continuativa
dal  processo  industriale dell'impresa stessa e sono destinati ad un
ulteriore  impiego  o al consumo». Nell'ambito della medesima lettera
viene  poi  stabilito che tali prodotti sono sottratti alla normativa
sui  rifiuti  a  condizione  che  si  tratti di «sottoprodotti di cui
l'impresa  non  si  disfi,  non sia obbligata a disfarsi, e non abbia
deciso  di  disfarsi  ed  in  particolare  i  sottoprodotti impiegati
direttamente   dall'impresa  che  li  produce  o  commercializzati  a
condizioni    economicamente    favorevoli   per   l'impresa   stessa
direttamente  per  il consumo o per l'impiego, senza la necessita' di
operare   trasformazioni   preliminari   in  un  successivo  processo
produttivo»  ... «L'utilizzazione del prodotto dev'essere certa e non
eventuale.» ... «L'utilizzo del sottoprodotto non deve comportare per
l'ambiente  o  la  salute  condizioni  peggiorative rispetto a quelle
delle  normali  attivita'  produttive».  Senonche'  nel corpo di tale
lettera  n)  vengono  altresi' prese in espressa considerazione - nel
quarto  periodo  - proprio le ceneri di pirite, particolare categoria
di sottoprodotto non soggetto alle disposizioni sui rifiuti, definite
«polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento
del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di
acido  solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di
produzione  dismessi,  aree industriali e non, anche se sottoposte al
procedimento di bonifica o ripristino ambientale».
    Dal   tenore   complessivo   dell'art. 183,   lett.   n),  d.lgs.
n. 152/2006 emerge dunque che quando un residuo produttivo:
        1)  proviene  da  attivita'  di  impresa  (e  dunque  non  di
consumo);
        2)  scaturisce  dall'attivita' produttiva in via continuativa
(cioe' come un materiale tipico di quella produzione);
        3)  non  viene abbandonato dall'impresa (che dunque non se ne
disfa);
        4)  lo  reimpiega  direttamente  oppure  lo  commercializza a
condizioni per lei economicamente favorevoli e
        5)  senza  attivita' preliminare di trasformazione (che cioe'
«faccia perdere al prodotto la sua identita»;
        6)  viene  effettivamente  e certamente riutilizzato in altro
ciclo   produttivo   (circostanza   che  deve  essere  attestata  con
dichiarazioni scritte delle imprese di partenza e di arrivo);
        7)  il  suo  utilizzo non comporta per l'ambiente o la salute
condizioni   peggiorative  rispetto  a  quelle  legate  alle  normali
attivita' produttive tale residuo non e' piu' rifiuto.
    E'  stato  osservato  dai  primi  commentatori  del nuovo decreto
legislativo  che  la definizione di sottoprodotto di cui all'art. 183
sostituirebbe  il noto art. 14, d.l. 8 luglio 2002, n. 138 convertito
in  legge  8 agosto 2002, n. 178, gia' oggetto di aspre critiche e di
plurirni  rilievi  di  sospetta  incostituzionalita'  per l'inopinata
restrizione  della  nozione  comunitaria  di rifiuto. Con riferimento
alle  questioni  di  legittimita' costituzionale gia' sollevate ci si
limita  a  rinviare  all'ordinanza della Consulta n. 288 del 3 luglio
2006  con  la  quale  e' stata disposta la restituzione degli atti ai
giudici  a quibus ai fini di una nuova valutazione circa la rilevanza
e  la  non manifesta infondatezza delle questioni sollevate alla luce
dello  ius  superveniens.  Preme tuttavia qui precisare che i rilievi
che  nel  prosieguo  del  presente  provvedimento  verranno formulati
attengono  non  tanto  alla  portata  ed  agli  effetti della nozione
generale   di   sottoprodotto  introdotta  da  legislatore  gia'  con
l'art. 14   del   d.l.  n. 2002/138  e  in  qualche  modo  riproposta
dall'art. 183,  d.lgs. n. 152/2006 (seppure in termini piu' precisi e
puntuali),  quanto  piuttosto  alla  riconducibilita' delle ceneri di
pirite alla nozione di sottoprodotto nell'accezione che ne viene data
a  livello  comunitario  dalla  Corte  di  giustizia, alla luce della
direttive di riferimento in tema di rifiuti.
    La  categoria  dei sottoprodotti ha invero trovato ingresso anche
nell'ambito  della  giurisprudenza comunitaria, la quale con la sent.
sez.  VI,  18 aprile 2002, n. C-9/00, Palin Granit Oy ha per la prima
volta  introdotto  il  concetto  di  sottoprodotto limitandolo pero',
tenuto  conto  del  noto principio di interpretazione estensiva della
nozione  di  rifiuto,  al  caso  di  riutilizzo  certo  di  un bene o
materiale,  senza  trasformazione preliminare, nel corso del processo
di  produzione.  Nella  successiva  sent. 11 settembre 2003 C-114/01,
Avesta  Polarit  Chrome Oy viene sostanzialmente ribadito il medesimo
principio: laddove la utilizzazione dei residui non e' necessaria nel
processo di produzione, se per sfruttare o commercializzare i residui
stessi  in  maniera  diversa  e'  necessaria  una loro trasformazione
preliminare,  si  tratta  di rifiuti di cui il detentore si disfa. La
sentenza  dell'11 novembre  2004  in  C-457/02, Niselli, ribadisce al
punto  33  che  «l'ambito  di  applicazione  della nozione di rifiuto
dipende  dal  significato  del  verbo  «disfarsi».  Esso  deve essere
interpretato  alla  luce della finalita' della direttiva 75/442, che,
ai  sensi  del  suo  terzo  «considerando», e' la tutela della salute
umana  e  dell'ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del
trasporto,   del   trattamento,   dell'ammasso  e  del  deposito  dei
rifiuti...».  Al  successivo  punto  34  evidenzia come «la direttiva
75/442  non suggerisce alcun criterio determinante per individuare la
volonta'  del  detentore di disfarsi di una determinata sostanza o di
un  determinato  materiale,  in mancanza di disposizioni comunitarie,
gli  Stati  membri sono liberi di scegliere le modalita' di prova dei
diversi  elementi definiti nelle direttive da essi trasposte, purche'
cio'  non  pregiudichi l'efficacia del diritto comunitario». Al punto
44  afferma  «Puo' tuttavia ammettersi un'analisi secondo la quale un
bene,  un  materiale  o una materia prima derivante da un processo di
fabbricazione  o  di estrazione che non e' principalmente destinato a
produrlo puo' costituire non un residuo, bensi' un sottoprodotto, del
quale  l'impresa  non ha intenzione di disfarsi ai sensi dell'art. 1,
lett. a)  primo  comma  della  direttiva  75/442  ...».  Al  punto 45
chiarisce   i   limiti   dell'apertura:   «Tuttavia,   tenuto   conto
dell'obbligo  di  interpretare  in  maniera  estensiva  la nozione di
rifiuto, per limitare gli inconvenienti ed i danni inerenti alla loro
natura»,   il  ricorso  alla  figura  del  sottoprodotto  «dev'essere
circoscritta  alle  situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un
materiale  o  di  una  materia  prima non sia solo eventuale ma certo
senza  previa  trasformazione  e  avvenga  nel  corso del processo di
produzione».  Al  punto  46  ribadisce  che  il  bene non deve essere
sottoposto ad «operazioni di trasformazione preliminare».
    Vi  sono  stati  tuttavia  due  successivi arresti della Corte di
giustizia con la decisioni dell'8 settembre 2005, in cause C-416/02 e
C-121/03  pronunciate tra l'altro ex art. 226 del Trattato (procedure
di  contestazione  della Commissione) e non ex art. 234 (pronuncia su
questione   pregiudiziale)   nelle  quali  ha  ritenuto  che  residui
dell'attivita'  zootecnica  accumulati  dall'impresa  in attesa di un
successivo  utilizzo avrebbero potuto essere utilizzati anche «per il
fabbisogno  di  operatori  economici  diversi  da chi l'ha prodotto».
Sarebbe   dunque   sottoprodotto  e  non  rifiuto  anche  il  residuo
produttivo  destinato  dal  suo produttore a terzi, cioe' all'esterno
dell'impresa  che  lo  ha  generato.  Va  peraltro ricordato che tali
ultime   due  pronunce  sono  state  precedute  da  un'ordinanza  del
15 aprile 2004 in causa C-235/02, Saetti Fredian nella quale la Corte
di  giustizia  ha  enunciato  il  principio (punto 48) secondo cui un
residuo  di  produzione  (nella  fattispecie  si trattava del coke da
petrolio  di  Gela)  utilizzato  con  certezza  «per il fabbisogno di
energia  della  stessa  impresa  produttrice e di altre industrie non
costituisce  rifiuto ai sensi della direttiva del Consiglio 15 luglio
1975,  n. 75/442/CEE,  relativa  ai  rifiuti,  come  modificata dalla
direttiva del consiglio 18 marzo 1991, n. 91/156/CEE».
    Dunque,  in queste decisioni sembrerebbe ravvisarsi una ulteriore
apertura  del  giudice  comunitario del concetto di sottoprodotto nel
senso  di  una  sua estensione all'ipotesi di utilizzo del residuo di
produzione   da   parte   di   soggetti  terzi  rispetto  all'impresa
produttrice.
    4. - Le ceneri di pirite.
    Tale essendo il panorama giurisprudenziale a livello comunitario,
e' bene a questo punto evidenziare come all'esito del dibattimento e'
emerso  che  le  ceneri  di  pirite  costituiscono  il  necessario ed
inevitabile  residuo  del  procedimento  industriale di fabbricazione
dell'acido  solforico.  Tale  sostanza, fin dai primi anni del secolo
scorso,  e'  stata  utilizzata su larga scala per la preparazione dei
concimi chimici (perfosfati) destinati all'agricoltura; essa, piu' in
generale,  rappresenta  inoltre  uno  dei  piu'  importanti  prodotti
intermedi  di  tutta  l'industria  chimica di base. L'acido solforico
veniva  ottenuto  attraverso il c.d. arrostimento del minerale pirite
in  forni  speciali  a  seguito  del  quale  il residuo solido che ne
derivava  era costituito, appunto, dalla cenere di pirite. Negli anni
che  hanno  preceduto il secondo conflitto mondiale furono realizzati
in  Italia  circa  cento  stabilimenti  di varia potenzialita' per la
produzione di acido solforico a partire dalle piriti. Solamente verso
i  primi  anni  `70 la materia prima pirite e' stata sostituita dallo
zolfo  -  proveniente  dalla  desolforazione  dei  gas naturali e dei
prodotti  petroliferi  - che e' divenuto l'ingrediente di base per la
produzione  dell'acido  solforico attraverso l'impiego di una diversa
tecnologia.  Si  possono  cosi'  trovare ancora oggi depositi (piu' o
meno  controllati) di queste ceneri in varie zone del Paese (si v. la
consulenza  tecnica  della  difesa  di  Sacco  Piergiorgio). Anche il
deposito  di  Gambarare  di  Mira  rientra  in questo generale quadro
storico,  poiche'  e'  emerso  che esso e' stato attivo sino ai primi
anni `70, quando e' stato definitivamente messo in sicurezza mediante
ricopertura   dei   cumuli   di   cenere  con  uno  strato  di  terra
successivamente  piantumata. Solo dopo un ventennio, e precisamente a
partire  dal 1994, il deposito e' stato riaperto e coltivato da parte
della societa' Veneta Mineraria S.p.A. che aveva appaltato a Melinato
Elio  i  lavori  materiali  di movimentazione delle ceneri ed il loro
conseguente  carico  su  camion  per  il  successivo conferimento del
materiale a cementifici italiani ed esteri.
    Questi ultimi rappresentano i destinatari «naturali» delle ceneri
di  pirite,  poiche' dette polveri sono ricche di ossidi di ferro che
costituiscono  un additivo fondamentale nella produzione del cemento.
Tale  pratica  di  utilizzo  risale agli inizi del secolo scorso e si
protrae tutt'oggi. Le ceneri vengono mescolate tal quali, senza alcun
trattamento  preventivo  (rectius: senza alcuna attivita' preliminare
di  trasformazione nel senso previsto dall'art. 183, legge cit.) alle
altre  materie prime e successivamente la miscela (c.d. farina) viene
inserita  in  speciali  forni la cui temperatura viene spinta oltre i
1400  gradi  C.;  il  materiale  cosi'  ottenuto,  dopo  essere stato
raffreddato, viene macinato e prende il nome di cemento.
    5. - Il contrasto dell'art. 183, lett. n), quarto periodo, d.lgs.
n. 152/2006 con gli artt. 11 e 117 Cost.
    Fatta questa doverosa premessa per meglio inquadrare il fenomeno,
appare subito chiara una caratteristica del residuo produttivo ceneri
di  pirite:  esse  non  derivano da un processo produttivo attuale ma
derivano  sempre da attivita' industriali non piu' esistenti da anni,
tanto  da  essere  le  stesse raccolte, come reca lo stesso art. 183,
lett.  n),  d.lgs. n. 152/2006, in stabilimenti «dismessi» od in aree
di  diverso  tipo («industriali e non»), segno evidente del fatto che
le  ceneri  sono  state  nel corso degli anni accantonate in svariate
localita'  e  con le piu' diverse modalita' e non piu' utilizzate. Il
legislatore italiano «fotografa» la problematica connessa a tale tipo
di   materiale   che   presenta   la  peculiarita'  «storica»  appena
evidenziata:  cosi'  facendo  pero'  abbandona  completamente  uno di
principali  cardini della normativa comunitaria vigente in materia di
rifiuti   rappresentata   dal   concetto  di  «disfarsi»:  quando  il
produttore  e/o  detentore  «si  disfa»  di  un  determinato  residuo
produttivo  e  non  lo  reimpiega  o  lo commercializza, allora si ha
necessariamente  un  rifiuto e non un sottoprodotto (art. 1, comma 1,
lettera  a)  della direttiva 2006/12/CE). Stabilire che un residuo va
considerato  sottoprodotto da sottrarre alla disciplina dei rifiuti a
prescindere  dal  fatto  che  l'impresa  produttrice  se  ne  e' gia'
disfatta e' operazione che contrasta con il diritto comunitario.
    E'  agevole  prevedere  l'obiezione che tale ragionamento risulta
viziato   all'origine  poiche'  assume  a  punto  di  riferimento  il
produttore  originario e non l'attuale detentore, che spesso si trova
-  come  nella  vicenda per cui e' processo - a gestire tali depositi
per   sfruttare   commercialmente   dette   ceneri   ed  alienarle  a
cementifici:  tale  argomentazione  e' suggestiva, tuttavia va sempre
tenuto   presente   che   il  criterio  in  base  al  quale  adottare
l'interpretazione  piu'  corretta  in materia di rifiuti e' quello di
non  pregiudicare  l'efficacia  del diritto comunitario che in questo
settore  si  basa sul generale principio di interpretazione estensiva
della  nozione  di  rifiuto per tutelare la salute umana e l'ambiente
contro   gli  effetti  nocivi  della  raccolta,  del  trasporto,  del
trattamento,  dell'ammasso  e  del  deposito  di  tali materiali. Del
resto,  la  stessa  normativa  nazionale pone a base della disciplina
generale   dei   sottoprodotti  l'impresa  che  li  produce,  facendo
riferimento ad essa per tutto quanto concerne i presupposti (elencati
al  3)  che  debbono  ricorrere per sottrarre il sottoprodotto stesso
alla disciplina della parte quarta del d.lgs. n. 152/2006.
    In  quest'ottica  non  sembra  avere  pregio  neppure l'ulteriore
rilievo secondo cui tali accumuli di ceneri di pirite distribuiti sul
territorio  (compreso  quello  oggetto del presente procedimento) non
sarebbero mai stati «abbandonati» nel senso giuridico del termine dal
produttore  originario,  essendo il residuo stato oggetto, negli anni
in cui si produceva l'acido solforico, di conferimenti ai cementifici
«a  pie'  di impianto» e che solo il surplus di produzione ne avrebbe
determinato   l'accantonamento   in  previsione  di  un  loro  futuro
utilizzo.   Va   infatti   evidenziato  il  dato  fattuale  (recepito
puntualmente dal legislatore nazionale laddove menziona «stabilimenti
dismessi»  ed  «aree  industriali  e  non»)  che tale accantonamento,
raccolta,  allocazione che dir si voglia di questi materiali e' assai
risalente  nel  tempo (almeno trent'anni): tale aspetto non fa dunque
che sottolineare come per un lungo intervallo temporale l'utilizzo di
tali  ceneri  non fosse affatto certo o probabile, e che le decisioni
sul  suo destino non fossero cosi' scontate. E' dunque questo il dato
obiettivo che dev'essere preso in considerazione che non fa altro che
sottolineare  come  la  normativa  di  cui si intende qui chiedere lo
scrutinio  costituzionale  pare  porsi  in  contrasto non solo con il
requisito  del  «non  disfarsi»  del  residuo da parte del produttore
originario (cosa che invece avviene nel momento in cui egli raccoglie
il  materiale in una determinata area che viene quindi chiusa o messa
in  sicurezza  e  li'  lasciata  per  anni), ma anche con l'ulteriore
requisito  dell'utilizzo  certo  ed  effettivo del residuo produttivo
nella  fase  in cui questo viene alla luce (dovendosi come gia' detto
farsi  riferimento  al  produttore  originario), come invece e' stato
piu' volte evidenziato dalla giurisprudenza comunitaria.
    Non  solo:  l'art. 183,  lett.  n)  nella parte in cui dispone la
deroga  alla  parte  quarta  del  d.lgs. n. 152/2006 per le ceneri di
pirite  «anche  se  sottoposte  a  bonifica  o ripristino ambientale»
appare  in contrasto con il principio generale secondo cui l'utilizzo
di  un sottoprodotto deve avvenire senza che gia' arrechi pregiudizio
per  l'ambiente  e la salute (art. 4, direttiva 2006/12/CE). Infatti,
se  le  ceneri  sono sottoposte a bonifica o ripristino ambientale e'
probabile  che  i  materiali  raccolti  possano  essere contaminati e
dunque pericolosi per l'uomo o per l'ambiente.
    In  conclusione,  si  ritiene  che  la  disposizione in oggetto -
art. 183,  lett.  n),  quarto  periodo,  d.lgs.  n. 152/2006 - per le
considerazioni  sopra  esposte contrasti con gli artt. 11 e 117 della
Costituzione.  Con  l'art. 11 Cost., laddove questo stabilisce che lo
Stato  italiano deve osservare la limitazione di sovranita' derivante
dalla  sua  partecipazione a ordinamenti internazionali, quale quello
della  comunita'  europea  e  con l'art. 117, primo comma Cost., come
novellato  dalla legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3, che nel suo primo
comma impone allo Stato di esercitare la sua potesta' legislativa nel
rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario.
    Sotto   tale   profilo   occorre   sottolineare   che   ai  sensi
dell'art. 130 R n. 2 del Trattato CE (divenuto in seguito a modifica,
art. 174  n. 2  CE) la politica della comunita' in materia ambientale
mira  ad  un elevato livello di tutela ed e' fondata sui principi, in
particolare,   della   precauzione   e  dell'azione  preventiva,  sul
principio  di  correzione,  anzitutto  alla  fonte  dei danni causati
all'ambiente  nonche'  sul  principio  «chi  inquina paga». Dunque il
legislatore   italiano   nell'introdurre  nell'ordinamento  giuridico
interno  una  norma in contrasto con tali principi e con la direttiva
sopra  citata  ha  altresi'  violato  il  generale  obbligo  di leale
cooperazione  di  cui all'art. 10 (ex art. 5) del Trattato CE laddove
viene  previsto  che  «gli Stati si astengono da qualsiasi misura che
rischi  di  compromettere  la  realizzazione degli scopi del presente
trattato».
    6. - Il ricorso alla Corte costituzionale.
    Tanto  premesso,  si  ritiene  che lo strumento piu' corretto per
giungere  ad  eliminare ai fini del decidere tale contrasto tra norma
interna  e  norma comunitaria e, dunque, il conseguente contrasto con
le norme della Costituzione sia il ricorso giudice delle leggi.
    Non  si possono infatti condividere le considerazioni dell'accusa
secondo  cui,  ricorrendo  tale  antinomia,  il  giudice nazionale e'
ammesso  comunque a disapplicare la norma interna in favore di quella
comunitaria.  E'  stato  infatti  sostenuto  in  questa  sede  che la
direttiva  75/442  e  succ.  mod.  e  la  direttiva  2006/12  debbono
considerarsi  a  tutti  gli  effetti  come direttive autoapplicative,
quantomeno  sotto il profilo della nozione di rifiuto: la controprova
ditale  assunto  risiederebbe nel fatto che la definizione di rifiuto
e'  stata infatti recepifa dal legislatore nazionale del 1997 prima e
del 2006 dopo ricalcando pedissequamente la norma comunitaria. Questo
e'  in  realta' un argomento che prova troppo: invero non risulta che
le  direttive  in  questione  attribuiscano  in  via chiara e diretta
diritti  in  capo  ai  cittadini  sicche' esse hanno la necessita' di
essere  fedelmente recepite dagli ordinamenti nazionali per diventare
efficaci nei confronti dei soggetti intrastatali.
    Sul  punto  si  fanno  comunque  proprie  le  osservazioni cui e'
pervenuta la recente sentenza della suprema Corte di cassazione, sez.
III,  con  la  recente  ordinanza  n. 1414  del  16 gennaio  2006: la
possibilita' di procedere alla disapplicazione di una norma nazionale
in  quanto  ritenuta  incompatibile  con  il  diritto  comunitario e'
possibile  solo  nella  misura in cui la norma di diritto comunitario
abbia  efficacia  e  diretta  applicazione nell'ordinamento giuridico
dello  Stato  membro, cosa che avviene esclusivamente nel caso: 1) di
alcune  norme  del Trattato CE, 2) dei regolamenti, 3) di alcuni tipi
di  direttive  precise e non condizionate per la loro applicazione ad
alcun  provvedimento  ulteriore e, infine, 4) delle decisioni rivolte
ai  singoli  o  agli stati membri. Cia' vale a maggior ragione per le
pronunce  della Corte di giustizia emanate in tema di sottoprodotti e
sopra   richiamate:   la   sentenza  della  Corte  emanata  ai  sensi
dell'art. 234  del  Trattato  e'  sentenza interpretativa, vincolante
solo  per  il  giudice  rimettente  e ovviamente non ha alcun effetto
caducatorio  sulla norma nazionale; in altri termini si puo' dire che
l'interpretazione   della  norma  comunitaria  resa  dalla  Corte  di
giustizia  ha la stessa efficacia delle disposizioni interpretate (v.
Corte  cost. sent. 11 luglio 1989, n. 389) sicche' nel caso di specie
trattandosi  di  norme  contenute in direttive classiche, gli effetti
della  sentenza  non  potranno mai riverberarsi automaticamente al di
fuori   del   procedimento   nell'ambito  del  quale  essa  e'  stata
pronunciata.
    Deve infine essere affrontata la questione degli effetti in malam
partem  di  una eventuale sentenza di accoglimento della Consulta. In
realta',  come  e'  gia'  stato  4 osservato in occasione di analoghe
ordinanze di rinvio alla Corte nell'ambito della medesima materia, la
eventuale  caducazione  della  norma  piu' favorevole al reo, qual e'
quella contenuta nell'art. 183 lett. n), d.l.vg n. 2006/152 c.p.p. in
tema  di  ceneri  di  pirite  non  comporterebbe  una  violazione del
principio   di   irretroattivita'   della   norma   penale   previsto
dall'art. 25,  secondo  comma  Cost.:  invero,  da  un lato la pirite
doveva  infatti  qualificarsi  senza  dubbio  come rifiuto quantomeno
all'epoca  del  sequestro  dell'area  avvenuto  il 22 marzo 2002, non
essendo ancora stato emanato all'epoca l'art. 14, d.l. 8 luglio 2002,
n. 138   poi   convertito,  recante  un'interpretazione  autentica  e
restrittiva  della  nozione  di  rifiuto  e dall'altro lato l'art. 51
d.lgs.  n. 22/1997  era  gia'  entrato  in  vigore  prima  dei  reati
contestati.  Inoltre l'accoglimento della questione potrebbe incidere
comunque  sulle  formule  di  proscioglimento o sui dispositivi della
sentenza   penale   e   si   rifletterebbe   comunque   sullo  schema
argomentativo  della  motivazione  della  sentenza (cfr. ex plurimis:
sent. Corte cost. n. 148 del 1983).
    7. - Rilevanza e non manifesta infondatezza della questione.
    Sul  secondo  requisito  si  rimanda  a  quanto sopra esposto. La
rilevanza  nel  presente  processo e' infine indubitabile poiche' tre
capi  dell'imputazione  (a, d ed e) presuppongono la riconducibilita'
delle  condotte  poste  in  essere in tesi accusatoria dagli imputati
alle  norme incriminatrici originariamente contenute negli artt. 51 e
51-bis  del d.lgs. n. 22 del 1997 poi trasposte negli artt. 256 e 257
del d.lgs. n. 152/2006.